Facciamo chiarezza sull’illegittimità dell’iva applicata alla tariffa rifiuti

Di 2 Marzo, 2017 0 0
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Ci chiedono un chiarimento sulla recente sentenza della Cassazione 5078/2016 con la quale si è stabilita nuovamente (dopo le sentenze della Corte Cost. n. 238 del 24/07/2009 e Cass. Sent. n. 3756 dell’8/03/2012) l’illegittimità dell’Iva in riferimento alla TIA in quanto altro non era che la riproduzione sotto diverse spoglie della “tassa” rifiuti, cioè la TIA era un tributo che il cittadino doveva pagare senza nessun concreto rapporto tra prestazione ed importo dovuto. La TIA era infatti dovuta anche nel caso in cui il contribuente non avesse fatto un utilizzo del servizio, copriva (come tassa) anche il costo dello spazzamento delle strade e, soprattutto, era commisurata con i criteri tipici dei tributi, gravando di più sui non residenti che, al contrario, sono quelli che producono meno rifiuti da smaltire. Era una tariffa (cioè un corrispettivo misurato in base alla quantità di rifiuti prodotti dall’utente) solo nel nome, ma in realtà era una tassa lineare nei fatti e quindi non poteva essere accompagnata dall’Iva perché non è possibile far pagare un’imposta su un’altra imposta. L’IVA difatti mira a “colpire” una qualche capacità contributiva che si manifesta quando si acquisiscono beni e servizi a fronte di un corrispettivo. Questo non è il caso della TIA che invece ha natura tributaria e non è nella sostanza un pagamento direttamente legato ad un servizio reso. Facciamo presente che anche la TIA2 se pur di breve durata è soggetta alla stessa interpretazione.

Con queste caratteristiche non era possibile pretendere l’applicazione dell’Iva, prova ne sia che la Cassazione esclude anche la necessità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, tanto è palese la regola da applicare per risolvere la controversa. L’aspetto più aberrante e che la causa nasce presso il giudice di pace e, in teoria, ogni utente dovrebbe attivarsi nuovamente presso gli organi di giustizia, in quanto – in assenza di una norma ad hoc – la restituzione spontanea del tributo da parte di chi ha emesso la fattura non dà a titolo per chiedere il rimborso dell’imposta all’erario (Cassazione, sentenze n. 12666 del 20 luglio 2012 e n. 1426 del 26 gennaio 2016).

Su questo quadro già complesso si innestano altri due problemi: l’intervenuta detrazione dell’Iva da parte di chi ha ricevuto queste fatture nell’esercizio di impresa, arte e professione, e la detrazione eseguita dai Comuni o dai gestori del servizio, in quanto la “trasformazione” del corrispettivo in tassa comporta che l’Iva sui beni e servizi acquistati per lo svolgimento del servizio diventa indetraibile. Questo è il problema di maggior rilievo, prova ne sia che alcuni comuni avevano già provveduto a sostituire le fatture imponibili con gli avvisi di pagamento della TIA senza Iva. Ma, rendendosi conto della perdita della detrazione sui costi del servizio, alla fine hanno chiesto ulteriori importi ai contribuenti per coprire i costi al lordo dell’Iva, mentre la tariffa imponibile era stata costruita considerandoli al netto.

In ogni caso bisogna distinguere tra chi ha potuto detrarre totalmente l’Iva, nel qual caso è logico ipotizzare la conferma sia dell’imposta che della detrazione (è inutile riaprire un effetto sostanziale pari a zero), mentre per chi non ha detratto, in tutto o in parte, la restituzione del tributo deve avvenire al netto della quota di Iva che esprime l’aumento del costo del servizio conseguente alla rettifica della detrazione per chi aveva emesso le fatture.

La vicenda è riferita espressamente alla TIA (che tutti i tribunali l’hanno definita una variante della TARSU, che è la tassa sui rifiuti solidi urbani) che come dicevamo è l’acronimo di Tassa di Igiene Ambientale, ma si allarga a tutte le forme di tasse per i rifiuti che comunque, ad eccezione dell’evoluzione TIA2 non sono soggette ad Iva.

A quell’epoca la TIA era applicata in 1.193 Comuni (non è stata applicata nel nostro comune), e riguardava quindi 17 milioni di abitanti e centinaia di migliaia di imprese. L’Iva illegittima che l’accompagnava valeva circa 200 milioni l’anno, e quindi produceva un arretrato rimborsabile da un miliardo considerando la prescrizione quinquennale (ma non mancano teorie valide che prevedono una prescrizione in 10 anni, che raddoppierebbe il conto).

Il rimborso

La richiesta di rimborso deve essere presentata verso l’ente territoriale che ha riscosso l’entrata facilmente verificabile dalla fattura emessa.

Prima di presentare le domande occorre tuttavia fare delle verifiche. In primo luogo, è ovvio che nessun rimborso potrà essere richiesto ai Comuni che hanno applicato la TARSU. In questi casi, poiché l’Iva non è mai stata addebitata, nulla potrà essere preteso in restituzione a tale titolo. In caso di applicazione della tariffa, inoltre, occorre accertare di che tipo di tariffa si tratta. Potrebbe infatti essere accaduto che il Comune, con apposita delibera regolamentare, abbia deciso di istituire la TIA2, in luogo della TIA1 in quanto la norma interpretativa, di cui all’articolo 14, Dl 78/2010, ne ha sancito la natura patrimoniale e in quanto tale da assoggettare ad Iva, tesi facilmente smontabile perché siamo in presenza di un’entrata che funziona esattamente come l’omologa entrata tributaria (la TIA1), che gode dello stesso regime giuridico e la giurisprudenza afferma che per stabilire la natura di un prelievo occorre dare prevalenza non alle espressioni letterali utilizzate dal legislatore ma al modo di funzionamento dello stesso.

Le cose sono, invece, decisamente più semplici nei Comuni che hanno applicato la TIA1. Sarà in questo caso sufficiente presentare un’istanza di rimborso (qui accanto trovate un facsimile della domanda) al gestore del servizio pubblico e quindi, in caso di rifiuto, citare lo stesso in giudizio davanti al giudice ordinario (le commissioni tributarie sono escluse in quanto non si tratta di emissioni di atti impositivi).

Il contribuente che ha effettuato il versamento di somme risultate non dovute, può richiederne il rimborso presentando apposita istanza entro il 5° anno successivo alla data del pagamento. Il soggetto attivo può procedere all’emissione e alla notifica di avvisi di accertamento per omesso/parziale pagamento e per omessa dichiarazione entro il 31 dicembre del 5° anno successivo a quello in cui doveva essere effettuato il versamento e/o presentata la dichiarazione.

Tuttavia trattandosi di un indebito oggettivo, il termine per presentare l’istanza di rimborso dovrebbe essere quello di dieci anni dal pagamento.

Riepilogo

I comuni che hanno applicato la Tarsu (come il nostro) non corrono il rischio di ricevere richieste di rimborso i comuni che hanno mantenuto la Tarsu (Tassa sui rifiuti solidi urbani), non essendovi stata applicazione di Iva non vi è nulla rimborsare.

I comuni che hanno applicato la Tia2 visto che c’è una disposizione che qualifica l’entrata come soggetta ad Iva è necessario eccepire l’illegittimità costituzionale di tale disposizione al fine di riqualificare l’entrata come tributo

Il soggetto a cui inviare l’istanza di rimborso è di norma è il gestore del servizio pubblico che ha applicato la tariffa e addebitato l’Iva. Nel solo caso in cui la tariffa sia stata applicata dal Comune, l’istanza dovrà essere presentata a quest’ultimo

Il termine di presentazione, trattandosi di un indebito oggettivo (si veda l’articolo 2033 del Codice civile), il termine di presentazione dell’istanza di rimborso dovrebbe essere di dieci anni dal pagamento. La recente sentenza della Corte di Cassazione (la n. 5627/2017) ha ribadito corretta l’individuazione del termine prescrizionale di 10 anni per richiedere la restituzione dell’imposta in luogo del termine breve di 5 anni, in quanto non riguarda l’esercizio del diritto alla ripetizione di quanto pagato da parte del debitore originario ma la ripetizione di una quota di tariffa tra l’altro priva di titolo (modifica del 09.03.2017).

Il giudice competente è sempre del giudice ordinario e non delle Commissioni tributarie.

L’evoluzione della tariffa rifiuti

La tariffa di igiene ambientale o TIA (oggi sostituita dalla TARI) è il sistema di finanziamento comunale della gestione dei rifiuti e della pulizia degli spazi comuni introdotto in Italia dal decreto Edoardo Ronchi, all’epoca Ministro dell’Ambiente, con D. L.g.s. n. 22/1997, e destinata a sostituire progressivamente la TARSU, la tassa sui rifiuti solidi urbani. Come dice il nome, la tariffa, al contrario della tassa, ha come obiettivo di far pagare agli utenti esattamente per quanto usufruiscono del servizio (nel modo più preciso possibile).

La legge 22 dicembre 2011, n. 214, di conversione del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (cosiddetto “decreto salva Italia”), ha previsto la sua sostituzione con la TARES (o RES), acronimo che sta per “tassa rifiuti e servizi”, un’imposta basata sulla superficie dell’immobile di riferimento, che ha come obiettivo la copertura economica per intero del servizio di raccolta e smaltimento rifiuti del Comune.

La TARES, a sua volta, è stata sostituita dalla IUC – nella sua componente TARI – a seguito dell’approvazione della legge n. 147 del 27.12.2013. Conseguentemente, la TIA è stata in vigore sino a tutto l’anno d’imposta 2012 compreso, mentre la TARES è stata in vigore solo per l’anno 2013.

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